Dalla parte degli oppressi: la morte di Paulo Freire

Giugno 1997

di Ettore Masina

Per tutta la vita si è battuto contro una informazione che non formava, che non dava alle persone la possibilità di crescere "dentro" o addirittura piegava i "clienti" alla volontà del Potere; e adesso i detentori del Potere mass-mediale si sono vendicati di lui, tacendo, dalle redazioni delle grandi agenzie e dei grandi giornali, la notizia della sua morte. Informati da alcuni brasiliani in Italia, soltanto Avvenire e la benemerita Agenzia Adista hanno pubblicato che Paulo Freire se n'era andato.

Ai giovani questo nome può suonare sconosciuto perché negli ultimi anni, invecchiato e malato, Freire viveva "aposentado", cioè "pensionato", lontano dai dibattiti scientifici e politici; ma il nome di quest'uomo intrepido e geniale rimarrà nella storia dei movimenti di liberazione come quello di un pedagogo che si adoprò come pochissimi altri a far sì che le masse diventassero popolo, opinione pubblica consapevole, uomini e donne protagonisti della propria storia. "Coscientizzazione" era la parola che egli usava per dire tutto questo. Come don Milani (della cui morte si compirà nelle prossime settimane il trentesimo anniversario), Paulo Freire vedeva nella miseria di parole e di concetti in cui i poveri vengono lasciati, nello spossessamento delle loro tradizioni da parte del bla-bla dei finti "umanisti", di certi politici, della pubblicità, insomma di tutti i "persuasori occulti" di cui il sistema capitalista si avvale, una forma particolarmente pericolosa e ignobile della lotta di classe che da sempre i ricchi combattono contro la giustizia e la libertà. L'analfabetismo - pensava Paulo - era una brutta bestia, generava mostri di superstizione, di ottusità, di oppressione; la risposta in nome della dignità umana non stava nella pura e semplice alfabetizzazione. Anche l'alfabetizzazio- ne poteva essere violenza del ricco sul povero: condotta sapientemente - dal libro di testo delle elementari sino al pieghevole commerciale - essa poteva diventare strumento di nuovo addottrinamento, veicolo di dominio dei ricchi e dei dittatori, situazione confusiva anche peggiore dell'incapacità di leggere e di scrivere. Così Paulo Freire, figlio di una lavandaia del Nordeste brasiliano, vissuto poverissimo per anni e anni, dopo avere molto studiato, riflettuto, parlato con la "sua" gente, fondò nel 1961 una scuola pedagogica, che egli definì "pedagogia degli oppressi". Con il suo Movimento di cultura popolare per tre anni egli cercò, con grande successo, di diffondere un metodo di alfabetizzazione che si sviluppasse attraverso un processo di autoeducazione comunitaria una critica della situazione in cui lo studente era immerso e un appello (e una strumentazione) alla creatività "politica" del popolo, nel senso più alto dell'aggettivo. Come scrisse Linda Bimbi nel 1971, presentando l'opera di Paulo, per Freire "la matrice del metodo, che è l'educazione concepita come un momento del processo globale di trasformazione della società, è una sfida a qualunque situazione conservatrice, sia di carattere sociale che burocratico e suggerisce operazioni pedagogiche umanizzanti".

In quel 1971 Freire era già in esilio. La dittatura dei militari che si era impossessata del Brasile non aveva impiegato molto tempo a comprendere che nelle sue idee e nel suo metodo era posta, quasi automaticamente, una opposizione di fondo ad ogni regime, tanto più a quello che sorgeva con l'esplicito proposito di "modernizzare" il paese senza alcun riguardo per le vittime di cambiamenti strutturali che comportavano il brutale sradicamento di intere popolazioni. Dunque Paulo Freire fu uno dei più grandi personaggi brasiliani ad essere esiliati. Andò in Cile, poi negli Stati Uniti, infine in Svizzera.

Soffrì duramente quell'esilio. Ricordo una sera che mia moglie ed io vivemmo a Roma con lui, in quegli anni. Aveva chiesto di vedere i grandi resti dell'età imperiale e ne rimase affascinato. Egli non voleva affatto - cito ancora Linda Bimbi - "distruggere la nostra cultura ma problematizzarla per farne scaturire, attraverso un processo maieutico, le possibilità taciute nei secoli". Con il passare delle ore si improvvisò nostro amico e ci raccontò la desolazione con la quale egli, uomo "equatoriale", viveva l'inverno svizzero. Nell'Italia, disse, ritrovava un po' di Brasile.

E in Italia tornò spesso, anche quando il suo esilio terminò ed egli rientrò in Brasile e nel pieno della lotta democratica diventò assessore della cultura di Sáo Paulo, accanto alla sua amica Luiza Erundina. Aveva un rapporto privilegiato - credo - con gli insegnanti del Comune di Reggio Emilia ("e con la cucina italiana" - amava dire: "ogni viaggio in Italia, un attacco di gotta!"). Nel 1990 accettò l'invito della Rete Radié Resch a parlare al convegno nazionale dell'associazione. Dimostrava ormai ben più dei suoi 69 anni e una barba patriarcale accentuava la sua fisionomia di vecchio. Era evidentemente stanco e malato, ben presto, tuttavia, rivolgendosi soprattutto ai giovani, ritrovò forza e scintillio di ira. Parlò della speranza come dello respiro che tiene in vita, "chi non spera è già morto".

Oggi che ad essere morto è lui, la sua speranza continua a vivere. Il silenzio dei Potenti lo onora, significa che Paulo Freire continua ad essere scomodo.